Forgotten we’ll be nel titolo originario, regia di Fernando Trueba – con Javier Càmara, Nicolàs Reyes Cano, Juan Pablo Urrego e Patricia Tamayo – sarà nelle sale dal 17 giugno con Lucky Red. L’ultimo film del regista premio Oscar Fernando Trueba (Belle Époque), La nostra storia, è l’unico film in lingua spagnola entrato a far parte della selezione Ufficiale del Festival di Cannes 2020 e presentato in Italia nella scorsa edizione della Festa del Cinema di Roma.
Adattamento del romanzo di Héctor Abad Faciolince, uno dei capolavori della letteratura contemporanea ispanoamericana, racconta la vera storia di suo padre, l’attivista colombiano per i diritti umani Héctor Abad Gómez. Con Javier Cámara (The Young Pope, Parla con lei), il film racconta la storia di un uomo combattuto tra l’amore della sua famiglia e la lotta politica, ambientato nella Colombia devastata dalla violenza degli ultimi decenni. Un film molto lungo che ha il sapore della saga, una narrazione distesa, non lenta, che ha il sapore della cinematografia sud americana, che riflette anche nell’ambientazione. A parte l’inizio e la parte verso la fine che si riallacciano in un cerchio che non si chiude simmetricamente, dove le scene sono ambientate in uno scorcio di Torino, la vicenda si svolge a Medellìn in Colombia. Ben girato con quest’alternanza di colore e bianco e nero ed interpretato in modo convincente da personaggi scelti ah hoc e con una scenografia e costumi molto curati, è prevalentemente ambientato in scene all’interno della casa, della scuola o in scene serali, con rari scorci di esterni, soprattutto in diurno, senza che quasi mai che lo zoom si allarghi. L’attenzione è tutta concentrata sui personaggi e sulla vita molto densa di una famiglia, vissuta in una sorta di dialogo ideale tra padre, il protagonista, e figlio che all’inizio e alla fine del film ne
prende quasi la voce. Quel bambino, il più piccolo, che tutti dicono essere il cocco del padre, un po’ viziato, per il quale non possiamo provare però che simpatia e tenerezza, che darà per altro al padre stesso filo da torcere, ne diventa in qualche modo l’alfiere. Nella letteratura cerca l’evasione da quella realtà dura, socialmente, di un regime che schiaccia i poveri e le periferie – ai quali sono dedicate le poche scene dallo sguardo più ampio – ma non puoi poi fare a meno di recuperare l’eredità del padre, a favore dei più deboli. La centralità della famiglia mostra come un nucleo di affetti, soprattutto di una famiglia numerosa, rappresenti un microcosmo, di felicità, impegno, diversità tra le persone; dialettica di posizioni diverse come nelle figure emblematiche della madre, religiosa, e del padre-protagonista, laico, additato come un comunista, ma aperto ad una grande spiritualità. La storia mostra anche in quanto tale come non ci sia mai un punto di equilibrio definitivo ma come la vita sia un flusso che costantemente mette in discussione i punti fermi. Al centro il trauma della malattia che colpisce gli affetti più cari e simmetricamente il tema delle vaccinazioni e il ruolo della politica nell’assicurare equità di trattamento ai cittadini. Mai come in questo periodo la sensibilizzazione alla cura della salute pubblica, il diritto all’informazione, la priorità della stessa rispetto al consenso sono argomenti di attualità e per molti aspetti il medico professore università protagonista ricorda il dottor Rieux de La peste di Albert Camus, che si conferma un classico intramontabile che può essere riscritto innumerevoli volte. L’eroe del nostro film che combatte anche con un filo di vanità, si trova nella pericolosa dialettica che spesso non riesce ad essere un dialogo diventando un’antinomia tra affetti familiari e impegni pubblici, dedizione al sociale. Sullo sfondo anche la vicenda più propriamente politica, la repressione della libertà di pensiero e di parola, quindi l’allontanamento degli intellettuali scomodi dalle aule, fino alle estreme conseguenze. Lo scenario è quello della violenza del sud America, che non è poi così lontano. Un bel film, che commuove e dimostra come si può parlare di violenza senza fare un film violento, né estremo.
a cura di Ilaria Guidantoni